2. Dalle istantanee al film: la necessità di una ricerca accademica concentrata sui percorsi terapeutici dei pazienti

a cura di F. Perrone – Istituto Nazionale Tumori di Napoli e AIOM; M. Di Maio – Dip. di Oncologia, Università di Torino, AO Ordine Mauriziano, Torino e AIOM; P. Varese e E. Iannelli– FAVO

L’evoluzione delle regole sulla sperimentazione e la ricerca accademica

Alla fine del 2004, il decreto sulla sperimentazione clinica no profit (“Prescrizioni generali relative all’esecuzione di sperimentazioni cliniche di medicinali, con particolare riferimento a quelle per il miglioramento della pratica clinica, come parte integrante della assistenza sanitaria”. GU Serie Generale n.43 del 22-02-2005) ha segnato uno spartiacque ontologico per la ricerca accademica in Italia. Dopo quel decreto, infatti, la ricerca accademica ha iniziato ad esistere anche formalmente. Non che prima non se ne facesse, sia chiaro. Dagli studi clinici condotti dalla comunità oncologica italiana erano state dettate le regole nel mondo per il trattamento chirurgico e medico del tumore della mammella e del morbo di Hodgkin; sempre dall’Italia erano venute le evidenze sperimentali che sarebbero state alla base delle linee guida sulla terapia antiemetica; nel nostro paese erano stati condotti i primi studi dedicati ai pazienti anziani; e tanto altro ancora.

Tutti gli studi italiani sopra citati sono stati di rilevanza fondamentale per il progresso dell’oncologia, condotti in un’epoca in cui le formalità e la burocrazia sembravano non esistere nella sperimentazione clinica. Quello che serviva erano le competenze cliniche e metodologiche, e il rispetto di principi etici che, fortunatamente, erano stati sanciti a seguito degli orrori commessi durante la Seconda Guerra Mondiale.

Erano anche i tempi in cui i farmaci erano economici, e la “sostenibilità” della spesa farmaceutica non veniva percepita come un problema per il Servizio Sanitario Nazionale che era stato istituito nel 1978. Nessuno era preoccupato dell’appropriatezza prescrittiva e pochi conoscevano le etichette dei farmaci in dettaglio.

Ma, qualche anno prima del decreto no-profit, erano state scritte delle regole molto precise per le sperimentazioni cliniche, chiamate Good Clinical Practice (GCP), e il nome stesso (riferito apparentemente alla pratica clinica, ma evidentemente pensato specificamente per la ricerca) indica che esisteva una certa confusione. In realtà, c’erano molte buone ragioni per scrivere delle regole formali; prima di tutto, cresceva prepotentemente il ruolo attivo dell’industria farmaceutica come principale sponsor degli studi clinici; inoltre cresceva rapidamente il prezzo dei farmaci e l’attenzione all’appropriatezza prescrittiva, che significava (e tutt’ora significa in un’ottica per molti aspetti minimalista) prescrizione letteralmente coerente con l’etichetta. Inoltre, la Direttiva Europea del 2001 recepita in Italia con decreto del 2003 aveva spaventato tutti in Italia e in Europa, perché non solo certificava l’obbligo di ottemperare alle GCP ma introduceva anche un sistema sanzionatorio che avrebbe potuto mettere in ginocchio la ricerca accademica. Di conseguenza, in presenza di queste regole e prima del decreto no profit, la ricerca accademica era diventata un’attività quasi clandestina, con il rischio che da un momento all’altro qualcuno avrebbe potuto accusarla di non essere sufficientemente in sintonia con le regole ormai divenute obbligatorie. Per questi motivi, il decreto sulla sperimentazione no profit del dicembre 2004 rappresenta il formale certificato di nascita delle sperimentazioni cliniche accademiche in Italia e non può essere ignorato.

Oltre sedici anni dopo quel decreto, è opportuno interrogarci sull’uso che ne abbiamo fatto e soprattutto se il nostro modo di interpretarlo possa consentire in futuro di perseguire l’obiettivo principale della ricerca accademica identificato nel titolo del decreto come il “miglioramento della pratica clinica”. E poiché, come detto,  la ricerca italiana ha contrassegnato alcuni dei grandi progressi terapeutici su scala mondiale, un ulteriore ragione per interrogarci sul ruolo della nostra ricerca sta nel fatto che su scala mondiale si raccolgono segnali su un restringimento dello spazio per la ricerca indipendente. Un’interessante analisi pubblicata a marzo 2021 dimostra, infatti, che la grande maggioranza degli studi oncologici pubblicati sulle principali riviste scientifiche negli ultimi anni è sponsorizzata dalle aziende farmaceutiche, mentre negli scorsi decenni (tra il 1995 e il 2009) la ricerca accademica aveva avuto un peso nettamente maggiore. [1]

Il contesto dell’oncologia moderna, tra speranze e difficoltà

L’oncologia sta, per certi versi, vivendo traiettorie contrastanti. Da una parte, la comunità scientifica è impegnata in studi in cui si cerca di tradurre in opzioni terapeutiche le crescenti conoscenze sui meccanismi molecolari e sui driver della crescita del cancro; non è una impresa facile e nonostante molti sforzi, l’oncologia di precisione non si può ancora considerare una strategia di provata efficacia (ad eccezione di specifici farmaci in specifici sottogruppi di pazienti), poiché i numerosi studi che riportano risultati positivi sono gravati da notevoli limitazioni metodologiche. D’altra parte, molti nuovi farmaci stanno arrivando sul mercato e una vera e propria ondata di combinazioni di inibitori dei checkpoint immunitari con altri farmaci nuovi o vecchi si sta dimostrando efficace in diversi contesti. Questa è una condizione fortunata, perché ovviamente è molto meglio avere diverse opzioni terapeutiche che nessuna o pochissime. E’ il caso, ad esempio, di tumori come il carcinoma epatocellulare o il carcinoma renale, in cui il numero di trattamenti disponibili, per varie linee di terapia, è clamorosamente aumentato nel corso degli ultimi anni, dopo che per molto tempo erano state disponibili solo poche o pochissime opzioni terapeutiche. E, senza dubbio, bisogna riconoscere il ruolo centrale svolto in questo contesto dalle industrie farmaceutiche. Sono infatti loro che, basandosi su scoperte derivanti dalla ricerca di base propria o dei ricercatori accademici, curano il complesso sviluppo delle sperimentazioni a fini regolatori. Poi, una volta che l’efficacia e la sicurezza vengano certificate dalle agenzie regolatorie, i nuovi trattamenti potranno essere utilizzati nella pratica clinica coerentemente con le indicazioni approvate e secondo le linee guida promulgate da varie società scientifiche. Un sistema complesso, che potrebbe essere considerato virtuoso, ma che al momento presenta vari punti di sofferenza.

Sempre più problemi, infatti, derivano dal fatto che quasi sempre i nuovi farmaci hanno prezzi estremamente alti, mediamente troppo alti in proporzione al valore aggiunto che gli stessi farmaci producono in termini di beneficio clinico. E molte incertezze derivano dai limiti metodologici delle sperimentazioni cliniche, progettate in maniera molto mirata per ottenere l’approvazione delle agenzie regolatorie ma spesso insufficienti a chiarire in maniera definitiva il ruolo dei nuovi farmaci nel panorama terapeutico complessivo. Le sperimentazioni a fini regolatori, infatti, rappresentano delle vere e proprie istantanee (snapshot) sull’efficacia e la sicurezza dei nuovi farmaci; tuttavia, proprio come in una istantanea, ciò che viene prima e ciò che accade dopo lo scatto potrebbe non essere messo a fuoco. Ad esempio, per quanto riguarda il prima,  le caratteristiche dei pazienti idonei a ricevere i nuovi farmaci, definite dai criteri di inclusione degli studi registrativi, potrebbero non essere coerenti con le caratteristiche dei pazienti nella pratica clinica al tempo in cui il nuovo farmaco arriverà sul mercato; oppure, come spesso accade, il trattamento utilizzato come comparatore negli studi clinici potrebbe non rappresentare più uno standard terapeutico nel momento in cui il nuovo farmaco arriva sul mercato perché, ad esempio, un altro nuovo farmaco, più efficace di quello usato come comparatore, è stato nel frattempo introdotto nella pratica.  E per quanto riguarda il dopo, il frequente uso dei cosiddetti endpoint surrogati – vale a dire dei risultati a breve termine (ad esempio il tempo alla progressione della malattia) non necessariamente predittivi di quelli a lungo termine (ad esempio la sopravvivenza) – tende di principio a cancellare il possibile effetto di diluizione delle differenze derivante dalle linee terapeutiche successive a quella oggetto dello studio clinico. [2]

A questo si aggiunga che nonostante si sia accumulata nel tempo molta letteratura sulla rilevanza dell’impatto sulla qualità della vita dei pazienti come esito rilevante per la definizione del valore di un farmaco, ancora le sperimentazioni registrative non riportano o riportano in maniera non tempestiva i risultati di queste analisi, non consentendo quindi una valutazione ad ampio spettro della efficacia dei nuovi farmaci. [3]

Pertanto, la collocazione negli algoritmi terapeutici di alcuni nuovi farmaci è tutt’altro che chiara quando essi arrivano sul mercato e l’ondata di innovazione potrebbe trasformarsi in caos, mettendo a rischio la sostenibilità economica del sistema e indebolendo di fatto la solidità delle prove scientifiche a supporto delle decisioni terapeutiche. La possibilità di trovare il miglior algoritmo di trattamento per i tumori del rene, ad esempio, sarà messa a dura prova nei prossimi anni proprio a causa delle carenze delle prove disponibili. Nuove combinazioni di farmaci, infatti, sono state approvate perché si sono rivelate migliori dello stesso farmaco (il sunitinib) standard al momento della pianificazione degli studi.  Tuttavia, nessuno conosce l’efficacia relativa di tali combinazioni poiché mancano studi di confronto testa a testa, o quale sia la migliore strategia di trattamento poiché mancano studi clinici di confronto tra le sequenze.

L’opportunità di un salto di qualità per la ricerca accademica

La ricerca accademica può reagire a queste problematiche e quindi assolvere alla propria missione di migliorare la pratica clinica ottimizzando l’uso delle opzioni terapeutiche che si rendono nel tempo disponibili. E’, però, necessario un salto di qualità. Nel corso degli ultimi 16 anni, infatti, la ricerca accademica Italiana di miglior qualità si è prevalentemente concentrata ad interpretare il decreto sulla sperimentazione no profit realizzando studi che non erano di interesse diretto delle aziende farmaceutiche; nel far questo, ha dimostrato di essere all’altezza e di poter gestire e coordinare studi di ampia dimensione, con partecipazione internazionale, finanziati con denaro pubblico. [4, 5]  Ma non si può non osservare che in alcuni casi la ricerca accademica ha sofferto della stessa “sindrome dell’istantanea” che abbiamo descritto per gli studi a fini registrativi, sia pure per ragioni diverse: uso di endpoint surrogati per abbreviare il tempo necessario, poca o nessuna attenzione alle sequenze terapeutiche, scarsa possibilità di programmare in maniera tempestiva confronti testa-a-testa che servano a risolvere alcune delle incertezze esistenti nella pratica clinica.

Patient-journey studies, ovvero il passaggio dall’istantanea al film

Come potrebbe la ricerca accademica compiere il necessario salto di qualità? Prima di tutto programmando studi che non soffrano della sindrome dell’istantanea. Vale a dire studi che non restringano l’attenzione sulla efficacia e tossicità di un singolo farmaco (o di una singola associazione di farmaci) in un segmento delimitato della storia naturale della malattia, ma piuttosto guardino all’intero percorso dei pazienti. Soprattutto per i pazienti affetti da una malattia avanzata, in molti casi arriva un momento nel quale la strategia più importante per il prosieguo delle cure sta nell’uso dei farmaci, più o meno integrato con forme di terapia locoregionale (radioterapia, chirurgia, radiologia interventistica, ecc.). Fortunatamente, la disponibilità di opzioni terapeutiche è tale che nella quasi totalità dei casi è possibile prevedere percorsi terapeutici che si basano su linee successive di trattamento, passando dall’una all’altra nel momento in cui si assiste ad una progressione della malattia. Esistono, pertanto, degli snodi decisionali (l’inizio del primo trattamento e poi le scelte ad ogni tempo in cui si verifica una progressione di malattia) nei quali il medico e il paziente devono insieme scegliere quale strada intraprendere, dal momento che esistono spesso delle alternative rimborsate nella pratica clinica tra cui ci si deve orientare. In molti casi, le conoscenze disponibili consentiranno di orientare la scelta; ma esistono casi in cui le conoscenze disponibili sono carenti (in senso generale o anche solo relativamente allo specifico paziente) e permane un elevato tasso di incertezza. Un patient-journey study dovrà consentire ad ogni snodo decisionale di scegliere il trattamento (secondo linee guida) o di allocare il paziente ad una delle opzioni tra le quali vi è incertezza, attraverso una procedura di randomizzazione. La raccolta dei dati lungo tutto il percorso di un paziente, sia nei segmenti in cui il trattamento è stato scelto secondo linee guida, sia in quelli in cui il trattamento sia stato assegnato da una procedura di randomizzazione consentirà allo stesso tempo di analizzare i risultati delle istantanee (i dati di confronto tra i pazienti randomizzati in uno specifico segmento) e dell’intero film, attraverso il confronto tra i percorsi terapeutici complessivi. Il protocollo di un patient-journey study dovrà essere adattativo poiché eventuali nuovi farmaci che vengano approvati per la pratica clinica dovranno entrare nel protocollo stesso, introducendo i nuovi percorsi e i nuovi snodi decisionali che si creano appunto nella pratica clinica quando arriva una nuova opzione terapeutica. Il protocollo dovrà avere ragionevolmente la sopravvivenza globale come obiettivo primario del confronto tra i diversi percorsi; ma i percorsi potranno essere anche valutati rispetto alla loro tossicità e al loro impatto sulla qualità di vita dei pazienti e un ruolo cruciale sarà giocato in questo senso proprio dalla partecipazione dei rappresentanti dei pazienti alla fase di progettazione dei patient-journey studies. Nei confronti randomizzati che saranno inscritti nel quadro complessivo, nulla vieta che vengano anche raccolti dati su endpoint intermedi, quali la risposta obiettiva o il tempo libero da progressione. Ma è anche importante considerare che un patient-journey study si può notevolmente arricchire dalla introduzione di valutazioni relative a fattori prognostici (raccolti al basale o durante il percorso), ivi incluse le eventuali alterazioni o caratteristiche molecolari e genetiche del tumore; queste ultime potranno anche, in alcuni casi, portare a privilegiare la partecipazione del paziente a studi con farmaci sperimentali che siano al di fuori dell’armamentario già disponibile. Da questo punto di vista, AIOM si sforza da vari anni di favorire la massima visibilità delle opzioni sperimentali esistenti presso i vari centri italiani, grazie a un sito dedicato agli studi clinici aperti, con relativo motore di ricerca, nonché la massima visibilità delle opportunità di “early access” eventualmente percorribili prima della rimborsabilità di un nuovo trattamento. In questi casi, il paziente potrà rientrare nel percorso del patient-journey study una volta finita la partecipazione allo studio sperimentale. Un patient-journey study consentirà di superare l’annoso dualismo tra studi di “real world” e studi di efficacia randomizzati, poiché punterà alla integrazione delle due strategie di studio, consentendo agli studi di “real world” un miglioramento della qualità legato alla raccolta prospettica dei dati e agli studi randomizzati un miglioramento della trasferibilità dei loro risultati nella pratica clinica, grazie al fatto che le popolazioni in studio saranno chiaramente identificabili per quanto le caratterizza prima e dopo lo studio randomizzato stesso. Tra l’altro, è opportuno qui ricordare come nell’ambito di una classificazione ampia degli studi di “real world” rientrino a pieno titolo anche i cosiddetti studi randomizzati pragmatici. [6] Un ulteriore vantaggio di un patient-journey study sta nel fatto che esso produrrà, dopo alcuni anni, dati di percorso molto utili per comprendere il benchmark di contesto necessario per le analisi di farmacoeconomia, che troppo spesso si basano su modelli teorici e assunti di non provata veridicità. Infine, la pre-esistenza di un patient journey study in un dato setting clinico potrebbe facilitare da parte della agenzia regolatoria l’applicazione di metodologie di rimborsabilità legate alla produzione successiva di conoscenza, che in questo caso sarebbe affidata direttamente alla pratica clinica della comunità scientifica, piuttosto che alle aziende farmaceutiche che in questo specifico campo hanno poi spesso fallito nel produrre i dati richiesti.

I problemi prevedibili di una ricerca “cinematografica”

Fin qui i benefici, ma non si possono tacere le difficoltà. Un patient-journey study metterà a dura prova l’agenzia regolatoria e i comitati etici, poiché dovrà essere accettato sotto forma di un master protocol che ad ogni nuovo farmaco che arriva sul mercato si arricchirà di nuove opzioni di percorso terapeutico che dovranno essere necessariamente gestite in forma di emendamento, pur introducendo, nel contesto delle opzioni di randomizzazione in caso di incertezza, dei veri e propri nuovi studi randomizzati. Altresì, la gestione di un protocollo di patient-journey study sarà molto complessa per chi lo coordinerà, poiché la cura degli aspetti connessi al protocollo e ai suoi emendamenti sarà molto più intensa e richiederà più personale e tempo di quanto richiesto da un tipico snapshot-study.  Il lavoro sarà molto più complesso e intenso per i comitati indipendenti di revisione, a tutela della sicurezza dei pazienti. Il lavoro sarà molto più intenso per i centri partecipanti, poiché in linea di principio, fatto salvi i casi di rifiuto del consenso, tutti i pazienti visti presso una unità di oncologia potrebbero essere elegibili per un patient-journey study se rientrano nella popolazione su cui si focalizza lo studio. Questo comporterà un notevole aumento della mole di lavoro per i data-manager e per il personale a supporto della ricerca. A tale proposito, sarà sicuramente necessario implementare delle strategie di mitigazione. Prima di tutto mantenendo al minimo la quantità di dati che è necessario raccogliere durante il percorso del paziente;  e poi sfruttando tutte le possibilità che la tecnologia digitale ci potrà offrire nei prossimi anni, a partire dall’uso di strumenti digitali per consentire la raccolta di patient-reported outcomes direttamente tramite i dispositivi mobili dei pazienti (anche da casa), fino ad arrivare alla possibilità che le piattaforme informatiche che gestiranno i patient-journey studies catturino i dati dei pazienti che hanno dato il consenso direttamente dalle loro cartelle cliniche informatiche o dai futuri fascicoli sanitari elettronici, pur sempre nel rispetto di tutto quanto attiene alla sicurezza digitale e ai diritti sulla privacy. Non ultimo, sebbene per ora solo in termini di prospettiva, un aiuto potrebbe anche derivare dalla applicazione di strumenti basati sulla intelligenza artificiale.

E’ del tutto chiaro, alla luce dei problemi sopra accennati, che affinchè la ricerca accademica possa introdurre nel proprio armamentario il modello dei patient-journey studies sarebbe molto importante un supporto decisionale ed economico da parte degli enti che governano da una parte le attività di ricerca nella sanità e dall’altra le decisioni regolatorie rispetto alla disponibilità dei farmaci dal momento della decisione iniziale alle eventuali rivalutazioni successive alla approvazione iniziale.

E’, infine, importante richiamare l’attenzione su come i patient-journey studies possano rappresentare uno strumento utile in termini di ricerca organizzativa, orientata a valutare come a percorsi terapeutici diversi possano corrispondere effetti sulla presa in carico dei pazienti oltre che sulla integrazione delle cure antineoplastiche con le terapie di supporto e le cure palliative integrate durante il percorso terapeutico complessivo. Si tratta, ovviamente, di temi storicamente importanti per l’azione di promozione dei diritti dei pazienti portata avanti da FAVO.

Conclusioni

La messa in pratica del modello di patient-journey study rappresenta sicuramente una sfida per la ricerca accademica italiana, ma come si sente dire da molte parti, sfide di questo tipo non dovrebbero più farci paura dopo quelle che ci sta imponendo la pandemia. E non possiamo non notare che proprio la pandemia ha messo chiaramente in luce come potenziare le infrastrutture di ricerca accademica sia fondamentale per accrescere la capacità di resilienza del sistema sanitario nazionale di fronte alle pandemie acute, come quella da coronavirus, e alle pandemie croniche, come quella rappresentata dal cancro. E in questo senso, è ragionevole pensare che proprio la ricerca accademica abbia in sé le competenze e la forza per assumersi il compito di innovare e rinnovare la sua missione in una prospettiva di maggior armonizzazione con il complesso sistema della ricerca sui nuovi farmaci e della loro valutazioni a fini regolatori. Peraltro, come da molti anni accade in Italia, la partnership proficua tra ricerca oncologica e rappresentanti dei pazienti potrà garantire nei prossimi anni che anche sfide complesse come quella proposta nei paragrafi precedenti possano essere affrontate e vinte.

Voci bibliografiche

  1. Del Paggio, J.C., et al., Evolution of the Randomized Clinical Trial in the Era of Precision Oncology. JAMA Oncol, 2021.
  2. Perrone, F., From snapshots to a movie. Challenging the patterns of academic research. Recenti Prog Med, 2021. 112(2): p. 97-99.
  3. Marandino, L., et al., Deficiencies in health-related quality-of-life assessment and reporting: a systematic review of oncology randomized phase III trials published between 2012 and 2016. Ann Oncol, 2018. 29(12): p. 2288-2295.
  4. De Placido, S., et al., Adjuvant anastrozole versus exemestane versus letrozole, upfront or after 2 years of tamoxifen, in endocrine-sensitive breast cancer (FATA-GIM3): a randomised, phase 3 trial. Lancet Oncol, 2018. 19(4): p. 474-485.
  5. Petrelli, F., et al., Overall survival with 3 or 6 months of adjuvant chemotherapy in Italian TOSCA phase 3 randomised trial. Ann Oncol, 2021. 32(1): p. 66-76.
  6. Garrison, L.P., Jr., et al., Using real-world data for coverage and payment decisions: the ISPOR Real-World Data Task Force report. Value Health, 2007. 10(5): p. 326-35.

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13° Rapporto - Capitolo 2

Dalle istantanee al film: la necessità di una ricerca accademica concentrata sui percorsi terapeutici dei pazienti